Durante le vacanze estive del 1776 sul Lago Maggiore, mentre in barca costeggiava i canneti di Angera, frugando con un bastone il fondo melmoso dell’acqua, Alessandro Volta vide salire a galla e poi svanire nell’aria bollicine gassose in gran copia. Raccolto tale gas, ne scoprì il carattere infiammabile: “Quest’aria arde assai lentamente con una bella vampa azzurrina”. Si trattava di un nuovo gas diverso dall’aria infiammabile metallica (idrogeno) già nota: “Questo, infatti, giugne a scoppiettare col massimo strepitio e rumore ove venga frammischiata con un volume di aria comune doppio del suo; quella all’incontro s’infiamma e scoppia col massimo vantaggio se ad una misura aggiungansi le otto di comune” (A.Volta; Lettere; VI, pag.30).
A questo gas Volta diede il nome di aria infiammabile nativa delle paludi. Si tratta di quello che oggi noi chiamiamo metano. Avendo poi verificato la presenza di tale gas in tutte le paludi, ne attribuì l’origine a fenomeni di decomposizione. Volta pensò subito a un utilizzo pratico della sua aria infiammabile in considerazione del fatto che essa era presente in grande quantità in molti luoghi.
Nella seconda lettera, Volta scrive: “Dirò che ho talvolta ruminato, se vi fosser mezzi onde far un uso economico dell’aria infiammabile, sostituendola all’olio […]. Ho pensato a inzuppare di quest’aria dei corpi molto porosi, della terra, e farne una specie di torba artificiale. A tutto ciò, e ad altre cose ho pensato, ma non le ho peranco a dovere sperimentate: che a tali esperienze ho veduto richiedersi molto tempo e molte disposizioni, e ingegni e macchine, che or non ho. Mi propongo bene a miglior agio di dirigere vari tentativi a tal oggetto. L’andar questi a voto non sarà una perdita per me; mentre anche le inutili esperienze, ed i riconosciuti errori giovano al fisico e al filosofo”.
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